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Colleen Mccullough-L'altra parte del mondo

Un romanzo molto coinvolgente e storicamente ben documentato, ambientato alla fine del '700 che racconta la prima colonizzazione dell'Australia, seguendo le vicende della vita di Richard Morgan, armaiolo di Bristol, che, dopo essere stato incastrato dai suoi nemici, viene condannato a 7 anni ed in seguito, alla deportazione in Australia dove arriverà nel gennaio 1788, dopo un lungo e terribile viaggio.
L'autrice descrive alla perfezione le difficoltà del primo impatto con una terra dove si doveva fondare una colonia penale dal nulla, con pochissimi mezzi e male equipaggiati, ma grazie alla volontà, al coraggio di alcuni condannati supportati dai soldati più lungimiranti, si riuscì a dare vita a delle comunità che poi, col tempo, prosperarono.
Anche i deportati quindi fecero la loro parte, infatti fra di loro non c'erano solo delinquenti comuni ma molti erano stati condannati a pene lunghissime, che partivano da un minimo di 7 anni, per macchinazioni altrui, come il protagonista del romanzo Richard Morgan, o per aver rubato un cappello o altri piccoli oggetti o un animale, magari da giovanissimi sotto l'effetto dell'alcool o della fame, poichè a quel tempo in Inghilterra i processi venivano fatti molto velocemente e senza prove, contavano solo le testimonianze e si dava ascolto soprattutto alla parola delle persone più importanti a livello sociale.
Per questo motivo le prigioni inglesi erano pienissime ed in alcune di queste i carcerati vivevano in promiscuità fra uomini e donne in grandi celle, con tutte le conseguenze del caso, oppure si usavano delle navi all'ancora sul Tamigi per ospitare un gran numero di prigionieri.
Per ovviare a questi problemi si pensò di deportare molti dei condannati dall'altra parte del mondo, caricandoli su navi negriere usate in precedenza per il trasporto di schiavi, intraprendendo un viaggio lunghissimo di quasi un anno in condizioni disumane, che portò alla morte molti di loro, come viene descritto benissimo in alcune delle pagine più forti emotivamente del romanzo.
Si tratta anche di una storia di rinascita poichè il protagonista, a cui erano morti moglie e figli in circostanze drammatiche quando viveva in Inghilterra, troverà in questo nuovo mondo la forza di formare un'altra famiglia e nei momenti di difficoltà riuscirà a scoprire in se stesso delle qualità di leadership morale e caratteriale che non sapeva di avere e che se fosse rimasto tutta la vita a Bristol, come sognava di fare, probabilmente non sarebbero mai venute fuori.
Un altro aspetto da sottolineare che traspare dal libro è che dopo essersi rifatti una vita almeno decente in Australia, nessuno dei deportati sogna di tornare nella madrepatria, da cui si sentono traditi per essere stati spediti allo sbaraglio tramite un viaggio disumano e male equipaggiati per creare dal nulla un posto abitabile e quindi si sentono un'entità  nuova, creata grazie alla loro forza e perseveranza

Tiziano Terzani sulla Cina e la globalizzazione

Parole attualissime anche  per i nostri giorni scritte da Tiziano Terzani nel suo libro "Un indovino mi disse", pubblicato nel 1995 ma ambientato nel 1993, un anno in cui l'autore e protagonista nel libro viaggia in lungo e in largo per l'Asia senza prendere aerei a causa di una profezia di un indovino di Hong Kong, che aveva previsto che se avrebbe preso un aereo durante quell'anno sarebbe morto.

"Strano destino, quello di Mao! Aveva voluto dare vita a una nuova Cina, rifondando la sua civiltà, imponendole nuovi valori e aveva finito per distruggere quel poco che ancora restava della vecchia. È stato Mao a voler togliere ai cinesi quell’ultima coscienza di essere diversi grazie alla loro civiltà per mettere loro in testa che erano diversi perché erano rivoluzionari. È bastato dimostrare che quella rivoluzione era un fallimento perché la tragedia arrivasse al suo epilogo, perché i cinesi andassero alla deriva e fossero presi dalla corrente dei tempi: quella di diventare come tutti. Poveri cinesi!
  Il destino di questa straordinaria civiltà che aveva, davvero per millenni, preso un’altra via, che aveva affrontato la vita, la morte, la natura, gli dei in maniera diversa dagli altri, mi rattristava! Quella cinese era una civiltà che aveva inventato un suo modo di scrivere, di mangiare, di fare l’amore, di pettinarsi; una civiltà che per secoli ha curato diversamente i suoi malati, ha guardato diversamente il cielo, le montagne, i fiumi; che ha avuto una diversa idea di come costruire le case, di fare i templi, un’altra concezione dell’anatomia, un diverso concetto di anima, di forza, di vento, d’acqua; una civiltà che ha scoperto la polvere da sparo e l’ha solo usata per fare fuochi d’artificio invece che proiettili per i cannoni. Quella civiltà oggi cerca solo di essere moderna come l’Occidente; vuole diventare come quell’isolotto ad aria condizionata che è Singapore; produce giovani che sognano solo di vestirsi come rappresentanti di commercio, di fare la coda davanti ai fast food di Macdonald, di avere un orologio al quarzo, un televisore a colori e un telefonino portatile.
  Non è triste? Non dico per i cinesi. Ma per l’umanità in genere, che perde molto nel perdere le sue diversità e nel diventare tutta uguale. Mao aveva capito che, per salvare la Cina, bisognava proteggerla contro l’influenza occidentale e farle cercare una soluzione cinese al problema della modernità e dello sviluppo. Nel porsi il problema Mao era stato grande. Grande era stato anche nello sbagliarsi sul come risolverlo. Ma sempre grande, Mao: grande poeta, grande stratega, grande intellettuale e grande assassino. Ma grande come la Cina. Così come ora è grande la sua tragedia.
  Se qualcuno, fra qualche secolo, riuscirà a guardare indietro alla storia dell’umanità, la fine della civiltà cinese gli dovrà apparire come una grande perdita, perché con quella è finita una grande alternativa la cui esistenza forse garantiva l’armonia del mondo.
  Non è un caso che siano stati i cinesi a scoprire che l’essenza di tutto è l’equilibrio fra gli opposti, fra lo yin e lo yang, fra il sole e la luna, la luce e l’ombra, il maschio e la femmina, l’acqua e il fuoco. È nell’armonia fra le diversità che il mondo si regge, si riproduce, sta in tensione, vive." 

Tratto da Tiziano Terzani "Un indovino mi disse", 1995

Energy Flash: considerazioni sulla genesi della techno e sul concetto di underground

Considerazioni molto interessanti tratte da questo libro e segnalate sul profilo facebook di Giosuè Impellizzeri a questo link

"Energy Flash", l'epico libro scritto da Simon Reynolds nel 1998 e recentemente ripubblicato in una versione aggiornata, mi ha appassionato per innumerevoli motivi. Evidenzio alcuni dei passaggi che ritengo fondamentali e condivisibili per diverse ragioni.

«Ho rispetto ed amore totale per gli iniziatori ma ricordo di essere stato un po' confuso da quella compilation di Detroit del 1988, perché non mi sembrava altrettanto anticonvenzionale rispetto alle tracce Acid House. Dal punto di vista musicale, tutte le cose di quel periodo sono imprescindibili ma all'epoca il ruolo di Detroit sembrava subalterno a quello della House di Chicago. La gente iniziò davvero a parlare di Detroit come origine delle idee e dei principi fondamentali (idee e principi che erano stati traditi) solo quando prese piede l'Hardcore, nel 1991-1992. Era una mitologia di ritorno, reazionaria. L'esplosione del Rave ha avuto come forza di propulsione l'Acid House, Todd Terry e la House "pianistica" italiana. Strings Of Life è stato un inno Rave, certo, ma se ci fosse stata solo la Techno di Detroit non ci sarebbe stata nessuna cultura Rave ma solo una rete di piccole scene alla moda in varie città sparse per il mondo. 
L'idea di Detroit come "alpha e omega" della musica Dance elettronica è storicamente imprecisa perché non è affatto vero che non c'era nessuna forma di musica Dance elettronica prima che Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson iniziassero a produrre le proprie tracce. In realtà loro reagivano a stimoli musicali che provenivano dall'Europa» (in relazione a ciò, è interessante il parere di Adam Lee Miller degli ADULT./Le Car, tratto dallo stesso "Energy Flash": «Mi emoziona sempre sentire qualcuno che dice che il primo disco Techno è stato Alleys Of Your Mind di Cybotron. Quel singolo in 7" uscì nel 1981 e per me era un disco New Wave. Tra l'altro è molto vicino a Mr. X degli Ultravox. Penso che la gente lo definì Techno solo perché Juan Atkins è nero»). 
Continua Reynolds: «Più realistico è vedere Detroit come un nodo cruciale in una rete, una stazione di interscambio, un momento in cui la musica si è fermata per un po', prima di ripartire. La grande innovazione lasciata da Detroit è stata quella di eliminare le parti vocali e la struttura della canzone: un passaggio fondamentale.

La Techno e i generi a lei affini si identificano come "machine music", musica per macchine. C'è una specie di culto per alcuni suoni in particolare o per alcune attrezzature, con band che scelgono nomi come 808 State o House Of 909, prendendoli in prestito da quelli di batterie elettroniche della Roland. Ma l'idea di una musica Techno devota agli ultimi progressi della tecnologia oscurerebbe il fatto che in realtà si tratta di una cultura ampiamente basata su macchinari e forme di comunicazione fuori moda. I vinili, quando i Rave hanno preso piede, erano già obsoleti. Molti dei più celebrati sintetizzatori o drum machine non erano all'ultimo grido, erano modelli spesso fuori produzione o quasi, come la Roland TB-303. Quando sulla scena si affaccia un nuovo strumento, agli inizi è talmente costoso che solo musicisti già affermati e facoltosi vi hanno accesso e lo usano, seguendo il loro stile, in linea con la produzione musicale che li ha già resi ricchi. Poi i prezzi delle attrezzature crollano e tutti possono accedervi. In queste circostanze accade che siano non musicisti culturalmente scaltri a scovare tutte le possibili applicazioni dei nuovi macchinari. Tendo a valorizzare le fasi in cui le ondate di barbari del do it yourself, armati di acuto ingegno, si appropriano di nuovi strumenti e trovano nuovi modi per piegare quelli esistenti alle loro necessità, come nella Hardcore coi breakbeat accelerati, le linee di basso sinusoidali e le voci che squittiscono. Amo quei momenti in cui la gente che infrange le regole (perché non conosce le regole) prende l'iniziativa ed inizia ad ascoltare musica che suona "sbagliata" ma interessante, nata dalla fusione di elementi incongrui.

Nella Dance, "underground" non ha un significato politico, se non quello di una vaga militanza e di un'altrettanto vaga avversione alle strategie delle multinazionali. L'industria del Pop mainstream viene vista come latrice di una versione diluita e compromessa della "roba originale" che, nella sua forma più vera e spontanea, è la musica di strada. "Underground" non significa automaticamente controcultura e identità politica di sinistra. Come l'Hip Hop, il Rave è una cultura post-socialista. L'attività imprenditoriale è un mezzo di espressione: organizzare feste nei capannoni e promuovere Rave, mandare avanti piccole etichette discografiche, tenere DJ set, lavorare in negozi di dischi specializzati, vendere le tracce che si sono prodotte. Tutte queste attività coinvolgono persone che certo vogliono guadagnare dei soldi, ma che vogliono anche produrre "capitale culturale", facendo cose che trovano piacevoli e ritengono giuste. Perciò la divisione tra underground e mainstream è tutta interna al capitalismo: è il micro-capitalismo contro il macro-capitalismo. Quest'ultimo è il nemico non perché è corrotto o interessato al profitto, ma perché è burocratico, incompetente, lento e non è in grado di rispondere con agilità alle rapide evoluzioni di gusto delle persone.
Ciò che è accaduto a metà anni Novanta è che alcune unità micro-capitalistiche si sono trasformate in aziende di medie dimensioni (Warp, Cream) e che alcuni elementi all'interno delle major si sono attivati per tentare di attrarre nella propria orbita la cultura Dance (grosse etichette discografiche hanno aperto sussidiarie specializzate per produrre tracce da club). La caratteristica principale dell'approccio macro-capitalistico è la visione a lungo termine e il tentativo di raggiungere economie di scala (la mentalità del blockbuster). Il micro-capitalismo è a breve termine, è orientato al consumo immediato: è la bootleg white label del brano R&B del momento, piena di campionamenti illegali, capace di guadagnare qualche migliaio di pound in poche settimane, un disco che si vende grazie al passaparola. Un modo di operare "macro" invece sarebbe quello di consolidare la carriera dell'artista, attraverso album e campagne di marketing».

Giulio Cesare Abba-Da Quarto al Volturno

Un bel libro, che ho letto con interesse, è un diario della spedizione dei Mille di Garibaldi, che nel 1860 conquistarono la Sicilia e il Regno di Napoli: è stato scritto da uno di loro, Giulio Cesare Abba, ligure di Cairo Montenotte, che, giovanissimo, prese parte all'impresa, da semplice soldato, dalla partenza dallo scoglio di Quarto, fino all'ultima battaglia, combattuta in Campania, presso il fiume Volturno.

Mi sono piaciuti molto i tanti aneddoti, che l'autore racconta, riguardo l'accoglienza della popolazione, a volte timorosa, altre volte festante, qualche volta ostile e mi ha fatto riflettere su quanti giovani siano morti per l'unità d'Italia, combattendo per un'ideale, i cui nomi quasi nessuno ricorda, di cui invece, grazie a questo libro, viene offerto un ricordo nitido, scritto da chi li ha conosciuti veramente.
per ulteriori info clicca qui 

"L'ultima legione"(Valerio Massimo Manfredi)



L'Ultima Legione, edito in Italia nel 2002, è uno dei romanzi più famosi dello scrittore modenese Valerio Massimo Manfredi, venduto in oltre 6 milioni di copie nel mondo.

Anno domini 476. Il re barbaro Odoacre depone l' ultimo imperatore romano, il treicenne Romolo Augustolo, confinandolo a Capri. Il sipario cala definitivamente sulla civiltà di Roma. Ma non tutto è perduto. Un pugno di legionari sembra risorgere dal campo di battaglia: Rufio Elio Vatreno, veterano di infinite battaglie, Cornelio Batiato, gigante etiope dalla forza smisurata, e il comandante Aurelio, il più leale e coraggioso. Insieme a Livia Prisca, una formidabile guerriera, sono decisi a tutto pur di liberare Romolo Augustolo e il suo precettore Meridius Ambrosinus. Una volta riusciti nella loro impresa, ha inizio una caccia all' uomo senza esclusione di colpi, una lotta disperata in cui l' intelligenza, le astuzie, il coraggio di quattro soldati proteggeranno e guideranno l' ultimo Cesare; una fuga a perdifiato attraverso un ' Italia e un' Europa devastate e drammaticamente affascinati, fino all' ultimo approdo, fino all' ultima resa dei conti in un luogo desolato agli estremi confini del mondo. Dove, dalle ceneri di un mondo che si era creduto immortale, sorge un nuovo mito, destinato a varcare i millenni.

Dal libro di Manfredi è stato tratto l'omonimo film L'Ultima Legione (titolo originale: Last Legion), che è uscito nelle sale italiane il 14 settembre 2007. Il film, diretto da Doug Lefler, ricalca da vicino le vicende narrate nel libro.

libro molto bello,scritto bene,e denso di grandi avventure,che collega i due miti della civiltà romana con quella britannica
consigliato!

Decadance,il libro sulla dance anni novanta

DECADANCE è il progetto ideato nel 2001 da Luca ‘Lukagee’ Giampetruzzi e Giosuè ‘DJ Gio MC-505′ Impellizzeri, che guarda, minuziosamente e con criterio, lo scenario della musica dance degli anni Novanta.

Organizzato fondamentalmente in due sezioni, il lavoro offre un vero e proprio spaccato di un decennio che, soprattutto per un livello creativo mai più raggiunto, in tantissimi oggi ricordano con piacere ed un pizzico di malinconia. Decadance (titolo che racchiude in sé due significati, la dance di una decade e la decadenza di qualcosa che pare davvero destinata all’oblio), fa leva su una ricchissima parata di schede (ben 150) che analizzano in modo certosino gli autori più popolari della musica dance e pop prodotta tra 1990 e 1999. Ogni scheda ingloba in sé una dettagliata biografia, un’altrettanto precisa discografia e, nella maggior parte dei casi, una mini intervista finalizzata a placare la sete di curiosità di coloro che si chiedono cosa facciano oggi i personaggi che un tempo calcavano le prime posizioni delle classifiche nazionali (e non solo). A ciò si aggiunge una seconda sezione intitolata Cronodance (in collaborazione con Andrea Grandi) che invece, anno dopo anno, riassume i tratti significativi di un mercato musicale che pare solo un vago ricordo.
Oggigiorno la musica dance degli anni Novanta continua ad essere riscoperta con insistenza sia dai networks nazionali che radio locali, in decine di forum sparsi per la rete telematica e da magazines settoriali, oltre che da un numero imprecisato di compilations divenute quasi delle “scatole magiche” in grado di poter far viaggiare nel tempo sino a toccare l’età dell’adolescenza per chi oggi ha quasi trent’anni. Decadance è per questo un progetto rivolto ad un’ampia fascia d’utenza poiché abbraccia un fenomeno che ha toccato, seppur in modo marginale, anche chi non amava ascoltare il DeeJay Time di Albertino, guardare il Festivalbar, Top Of The Pops, Roxy Bar di Red Ronnie e l’indimenticata Superclassifica Show di Maurizio Seymandi, consultare le classifiche di TV Sorrisi E Canzoni ed altro ancora. Sarà comunque difficile trovare chi, almeno una volta, non abbia canticchiato il ritornello di Corona o di una giovanissima Alexia. Decadance offre il giusto spazio per rimettere i ricordi a fuoco, anche con dettagli mai offerti prima d’ora al pubblico (tante le curiosità tenute nell’ombra) di un decennio che gli italiani amanti della musica dance-pop continuano ad additare come uno dei migliori in assoluto.

Decadance sarà disponibile dopo l’estate unicamente in supporto cartaceo: prenota sin da ora la tua copia scrivendo a decadancebook@libero.it

www.myspace.com/decadancebook

Claudia Attimonelli-Techno:ritmi afrofuturisti


Quali sono le tappe che hanno portato la musica techno a diffondersi dal Nord America all’Europa, dai ghiacci islandesi fino all’Estremo Oriente e alle isole sperdute dell’Oceano Indiano?
Tutto è cominciato nei primi anni Ottanta. Ma le radici della techno affondano in parte nelle riunioni clandestine fra musicisti jazz della Parigi occupata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.
La città di Detroit, il movimento filosofico dell’afrofuturismo nato dalla diaspora afro-americana e la black science-fiction hanno contribuito a fornire ai pionieri della techno le fondamenta sulle quali costruire un solido apparato critico. Questi elementi hanno in seguito reso la musica techno un fenomeno di portata mondiale, sfruttando le sue derive filosofiche, sociologiche e naturalmente di mercato (Love Parade e dance-floor). Ma la techno è prima di tutto amore per la tecnologia.
I concetti di underground e superficie, coolness e mainstream, ascolto e danza, djing e laptop music, il principio del campionamento, del loop, del remix e infine i luoghi dove la techno si manifesta – dal club ai rave – sono qui indagati secondo una prospettiva sociosemiotica che tiene conto della pratiche culturali urbane e dei protagonisti che a esse attingono – dj, musicisti, pubblico danzante, pubblico in ascolto, mercato discografico.
scheda libro