"l'intensità della vita non si misura con il numero dei respiri,ma in base ai luoghi e ai momenti che ci hanno fatto mancare il fiato"
Intervista a Donato Dozzy
DATE:Ottobre 2009
PLACE:Roma
Nella calma del suo studio romano abbiamo intervistato Donato Dozzy, ecco a voi la lunga chiacchierata nella quale Donato ci ha raccontato molte cose interessanti.
E: Ciao Donato, cosa significa suonare ad un festival come il Labyrinth (http://www.mindgames.jp/), quali emozioni o stati d’animo può generare un evento simile?
D.D.: E’ la completa e definitiva interazione tra una persona su un palco e 2000 persone che sono di fronte a te e sono esattamente come te. E’ un enorme quantità di energia che ti viene riversata addosso e tu non fai altro che riversarla di conseguenza su di loro. Si crea una spirale vera e propria in cui non c’è alcun tipo di sentimento anche solo vicino al negativo, sono tutte persone che hanno voglia di divertirsi e creare qualcosa di speciale con te, facendoti sentire il benvenuto.
Una festa senza eguali sia dal punto di vista emotivo, sia per ciò che concerne l’ambiente che ti avvolge, una riserva naturale stupenda, ma diciamo che qualunque posto loro scelgano per il Labyrinth è un posto speciale, un luogo dove il suono riesce a raggiungere livelli di nitidezza e purezza senza eguali (supportato da un’esemplare set-up Funktion One), dove lo spazio è ben distribuito (l’organizzazione limita gli accessi ad un massimo di 2000 unità), dove è molto frequente che tutti i dj che si trovano a suonare insieme lì poi rimangano amici tra di loro.
Altra cosa importantissima è che il festival viene fatto per creare un vero e proprio collegamento tra tutti gli atti che si susseguono. L’organizzazione (Russ nella fattispecie) fa in modo che ogni artista suoni in un determinato momento perché sa che in quell’orario può esprimersi al meglio, ed in effetti è quello che poi si verifica.
Nessuno si ritrova al suo posto per caso, noi siamo giocatori, siamo i dischi di Russ.
Lui è il miglior dj che conosca! (risate)
E: Quindi un organizzazione che cura il dettaglio fino all’eccesso?
D.D.: No, non lo definirei eccesso, è semplicemente tutto come dovrebbe essere.
E: Vista la vicinanza tra i generi che i djs propongono in questo festival, credi ci sia una sorta di snobbismo verso altre sonorità?
D.D.: No, è necessario mettere in chiaro che questo è un evento dove la predominanza è data dalla musica...Rituale, dalla musica psichedelica, e di contro, ci sono alcuni dj che vengono al Labyrinth che non propongono musica propriamente psichedelica, ma amano suonare ritmi più solari che quindi completano il ciclo sonoro creando il colore necessario.
D’altronde partecipare ad un evento dove si suona lo stesso tipo di musica per 4 giorni di seguito non è poi così entusiasmante.
Quello che posso dirti è che c’è un grandissimo equilibrio tra gli atti che si susseguono, il Labyrinth è un vero e proprio puzzle dove ogni tassello è meticolosamente studiato per risultare perfetto.
E: Da anni il mercato giapponese è visto come una sorta di area riservata tanto che alcuni producer pubblicano i loro album esclusivamente per quel territorio, credi che il pubblico nipponico sia più incline a ricevere input musicali? In cosa si differenzia la loro ricettività da quella della massa?
D.D.: Credo che un appassionato di musica di qualsiasi nazione non abbia nulla da invidiare ad un appassionato giapponese, quello che differenzia i giapponesi è il fatto che probabilmente hanno una più spiccata attitudine al collezionismo, a seguire la musica (sia dal punto di vista tecnico che da quello propriamente musicale) molto più sviluppato e radicato rispetto a qualsiasi altro.
Ci sono negozi di dischi ancora molto forti (vedi Disk Union) ed un gran consumo di vinile oltre che di tutti gli altri supporti. Posso riportarti l’esempio di un negozio di strumenti che si chiama “4G” dove ho visto almeno 5 “909” ed altrettante “808” rimesse a posto e vendute una accanto all’altra, molti altri strumenti vintage, pile di giradischi che la gente compra tranquillamente.
E questo loro essere così attenti alla musica di conseguenza li porta a seguire anche tutti gli artisti stranieri che vanno lì per suonare, e devo dire che ne sanno tanto! Nei vari anni ho avuto modo di conoscere e parlare con molta gente trovandoli tutti preparatissimi.
E: Puoi elencarci 3 dischi dance e 3 dischi ambient dalla tua selezione che hanno rappresentato, a tuo avviso, il culmine emotivo del festival?
D.D.: Wow…iniziamo dall’ambient.
Il set ambient ha avuto i suoi momenti, prima di tutto perchè ho avuto il coraggio di suonare una traccia che non avevo mai osato proporre davanti ad un pubblico, si chiama “Rude Boy” un pezzo prodotto da me che a differenza di tutte le cose che faccio, prettamente strumentali, è interamente cantato dal mio grande amico Habib.
Non ero affatto certo che potesse avere un buon riscontro, temevo molto il giudizio, anche perché ho impiegato 4 anni a realizzarlo e devo dire che la persona che più mi ha incoraggiato a suonare questo brano e che ringrazio apertamente è Chris di Mnml Ssgs . E’ stato lui a convincermi, dopo averla sentita in anteprima a Londra un paio di mesi fa.
Così ci ho pensato…Di getto è uscita ed è stato sicuramente uno dei momenti emozionanti del set.
La seconda è “Global Communication - 14:31”, ne parlavamo prima a cena, questo brano ha creato commozione sia in me che nel pubblico.
Il terzo è un pezzo di Mike Parker che si chiama “Arena” e presto verrà pubblicato su Aquaplano.
Questo è stato uno di quei momenti in cui ho sentito l’aria condensarsi completamente, le persone hanno smesso di parlare e si sono “prese” tutte le frequenze del brano per sei minuti di seguito senza far volare una mosca.
…Ora parliamo dei tre brani dance.
Uno dei momenti molto forti è stato quando ho messo “Alone” di Shura su 3B o ancora “Pssst!” di Cio D’or su Motoguzzi Records, un brano con delle frequenze molto sottili che sembrano cullarti, ma al tempo stesso l’andatura del basso è corposa, lì ho visto gente ansimare!
Per ultimo citerei il brano “Blue” di David Alvarado su Strive, anche qui la gente è letteralmente impazzita!
Probabilmente sto’ dimenticando qualcosa, e forse nei momenti finali si è verificata la vera esaltazione.
E: Con che disco hai chiuso?
D.D.: Ho chiuso con un brano che si chiama “Classic 909” di Scott Grooves su Natural Midi, un brano con una struttura ritmica creata appunto dalla “Roland 909” ed una melodia dolcissima sopra. Finito di suonare ho spento il giradischi ed è iniziato a piovere … ! (risate)
E: Assitere ad un tuo set significa staccarsi completamente dalla realtà immedesimandosi in quello che è l’oggetto delle meraviglie della musica elettronica, ovvero il viaggio. Quanto studio c’è alla base della costruzione di un tuo set? Quello che mi interessa capire è il rapporto che crei con i dischi che proponi e di quanto ascolto hanno bisogno per poter entrare nelle tue superbe selezioni?
D.D.: Ci tengo a dire che nei miei set non c’è nulla di programmato, tutto è lasciato alla casualità.
Prima di iniziare di solito scelgo un “colore”, un tema dato dal mio stato d’animo in quel giorno, ed una volta iniziato il set ogni cosa viene creata da molteplici fattori che possono verificarsi. Non esiste assolutamente un ordine nella mia borsa.
Cerco sempre di conoscere al meglio i dischi che propongo, ascoltandoli più e più volte, fino ad arrivare a creare un rapporto con loro.
Cerco di annotare mentalmente, per ognuno, gli strumenti utilizzati o il tipo di frequenze che generano. In questo modo posso abbinare le varie tracce senza creare particolari discordanze.
Inoltre posso dirti che amo scoprire la storia che c’è dietro ogni disco, informandomi, ove possibile, sulle tecniche con le quali è stato prodotto, sulle strumentazioni utilizzate, sulle scelte grafiche ecc. Diciamo che provo ad eseguire uno studio sia di feeling che di dinamiche.
E: Possiamo isolare nelle tue selezioni due macroaree ben precise, la prima basata su un estetica techno estremamente ipnotica ed avvolgente, la seconda fondata su un andamento downbeat ed atmosfere rarefatte, vorrei provassi a descriverci le sensazioni che ricevi suonando queste diverse anime.
D.D.: Sul set più “forte”, più veloce c’è un comportamento, sia del corpo, sia del modo in cui ragiono molto più forsennato ed incalzante. Io per primo mi metto sotto stress in un set techno perché so’ che devo andare al massimo.
E: Cosa cerchi realmente nel pubblico in quel momento?
D.D.: Io cerco la fiducia! Il pubblico và sempre conquistato partendo da zero ed è proprio questo che crea poi lo stress.
Ripeto, in quel momento so che devo dare il massimo, poi se vedo che si crea risposta allora tutto diventa in discesa, la gente và fuori di testa ed io voglio andare fuori di testa con loro!
E: Il tuo è un modo a mio avviso molto più raffinato nel gestire la folla, mentre gran parte dei dj si affida a “trick” vari per poter creare quell’effetto ripartenza ed esplosione, tu li trascini in uno stato di trance attraverso delle semplici variazioni tonali.
D.D.: Esatto, per quanto mi riguarda, è più importante la variazione sul dettaglio che sulla massa, il break può verificarsi attraverso una cassa dritta, lasciata lì da sola in attesa del prossimo arpeggio, questo è il mio modo di percepire il ritmo e mi rendo conto che non tutti possano sempre aver voglia di assecondare quella che a mio avviso è una vera e propria esperienza di gruppo.
Per quanto riguarda il set ambient, lì i tempi si dilatano, non ho l’esigenza di farti ballare ed il piacere sta tutto nell’abbinare i suoni, nella consapevolezza che le persone sono rilassate e ti ascoltano. Una vera e propria sonorizzazione dell’ambiente, l’autentico lato B della dance, magari sono suoni che potresti ascoltare tranquillamente in un set techno ma questa volta privati dell’esigenza del ballo.
E: Quale pensi possa essere una soglia temporale massima oltre la quale potresti rinunciare a suonare un tuo set?
D.D.: Una volta sola mi è stato chiesto di partecipare ad una serata in cui ognuno doveva suonare 20 minuti, ma è stata una cosa talmente surreale che mi è piaciuta! Esprimere tutto te stesso in 20 minuti…
E: Stiamo parlando del Combo Cut?
D.D.: Esatto, una serata fatta al Metaverso a Roma, gli organizzatori ebbero questa insana idea di far susseguire i djs in tempi di 20 minuti, la cosa bella fu che tutti entrarono nello spirito di questa cosa per cui i mini-set in realtà erano molto ispirati e la serata si rivelò molto divertente.
Sai, quello che potrebbe darmi fastidio è quando ti chiamano in un posto dove sai che non c’entri nulla, dove non hai molto a che vedere con la line-up o con lo spirito e quando arrivi ti dicono di suonare 1 ora o poco più, quello è un tempo in cui non esprimi niente, una lunghezza difficilissima da gestire.
Infatti quando mi propongono un set chiedendomi di suonare un ora io tremo, perché so che alla fine si rivelerà come il set più difficile di tutti, perché, soprattutto quando suoni della musica che ha a che fare con la psichedelia, termine che contempla l’assuefazione a determinati suoni, la gente potrebbe non entrare nel tuo mood e percepire la tua musica in maniera errata.
Per cui anche il mio approccio, come è successo già in passato anche all’estero, era estremamente terrorizzato, ed anche il mio suono poi ne ha risentito. Questo ti porta sicuramente a suonare dischi che hanno più personalità, sono meno rarefatti quindi magari cose che a te piacciono maggiormente, in certi frangenti non sei in grado di suonarle.
Io amo dei dischi che posso suonare soltanto dalla terza ora in poi per esempio, quando la gente è completamente presa dalla situazione. Poi chiaramente tutto si può fare, ma questo tipo di richieste non sono per me stimolanti.
E: Hai vissuto per un periodo a Berlino, città consacrata come capitale mondiale della dance elettronica e dimora ormai di moltissimi dj e producers. Come definiresti l’atmosfera che si respira in città, e perché quindi la scelta di tornare a Roma?
D.D.: Perché mi sono invecchiato! (risate) Berlino è il paradiso, puoi essere un musicista come una persona che cerca semplicemente delle conferme e trovare un gruppo di persone con le quali relazionarti perché fanno le tue stesse cose, e già questa è una grande motivazione secondo me.
Poi, una volta realizzato quello che stai cercando, devi comunque avere dei buoni motivi per rimanere, ed io non è che facessi una brutta vita in Italia prima d’andare via, anzi.
Il problema è che facevo fatica a trovare un’identità in questo paese, per cui io sono andato lì in realtà per relazionarmi con delle persone, per avere delle nuove amicizie, per imparare delle culture. Questa è la cosa bella di Berlino, tu vai lì e trovi persone che provengono da qualsiasi angolo del mondo, che arrivano e sono pronti a scambiare le loro informazioni con le tue.
Poi, parlando del lato musicale, molte di queste persone sono preparatissime tecnicamente, io nel giro di 2 anni ho fatto dei progressi a livello tecnico che non potevo aspirare ad avere rimanendo in Italia, facendomi tra l’altro le ossa in un posto come il Panorama Bar, che ignoravo totalmente prima d’arrivare a Berlino, e mi sono ritrovato ad essere resident lì dopo una settimana che mi ero trasferito, per fortuna ignaro, del “peso” del posto, per cui quella è stata sicuramente la palestra di interazione col pubblico più importante avuta lì.
Ho conosciuto tantissimi djs con i piedi per terra, brava gente, persone con le quali sono tutt’ora in contatto.
Anche il semplice vivere lì e respirare quell’aria è stata una cosa utile e secondo me, le persone sono molto umili e la competizione è più sana. Poi ovviamente sta a te fare un bilancio delle cose, perché a Berlino c’è tanta merda come tante cose buone, certo è che gli input sono enormi, perché tutti (o quasi) i djs del mondo sono andati a vivere lì.
Questo perché il background socio-politico permette una certa maturità collettiva, poi perché molte delle cose che da noi sono considerate tabù lì sono contemplate, permesse e condivise.
Puoi imparare molto sotto il punto di vista della tolleranza, del rispetto verso il prossimo, lì tutti i colori sono ben accetti, anzi, più sei colorato e più sei ben visto! E questa è una cosa che mi è rimasta nel cuore.
Aggiungerei anche che è una città nella quale si può vivere, non è cara, direi a misura d’uomo, le iniziative sociali che l’amministrazione rivolge ai cittadini sono molte, c’è un grande supporto verso le arti in generale ed è per questo che gli artisti si sentono benvenuti.
Tutta questa tolleranza naturalmente crea degli eccessi, chiunque, se vuole a Berlino può uscire di casa il lunedì e tornarci il lunedì successivo avendo partecipato soltanto a dei party, lì ogni festa in realtà è un after di quella prima, e quello che succede frequentemente è che questo stile di vita poi si ripercuote in maniera negativa sul lato artistico, nonché su quello fisico e la creatività viene meno.
E: Quindi può essere una vera e propria arma a doppio taglio?
D.D.: Lo è! Se tu sei una persona votata all’autodistruzione, a Berlino ti scavi la fossa.
E: Quali sono i canali che attualmente utilizzi per acquistare la musica che ami proporre? E’ ancora intatto il fascino del vecchio negozio di dischi dove passare intere giornate a scavare tra montagne di vinili?
D.D.: Beh si, io posso portarti come esempio tutti gli anni passati dentro da Re-Mix a Roma, come tutte le ore passate da Hardwax, dove credo che ogni scaffale è stato da me passato al setaccio.
E’ una cosa troppo bella, il negozio di dischi rimane un grande momento di socializzazione secondo me, sia perché incontri i tuoi “simili”, persone con la tua stessa passione, poi c’è il rapporto che si crea con il negoziante, io ci sono cresciuto con queste cose e sono uno a cui non basta fare semplicemente degli ordini via internet.
Internet rischia di farci perdere quello che è il contatto con altre persone che non sia strettamente legato ad una serata alla quale partecipi, nel negozio puoi conoscere persone appassionate che magari non incontreresti mai in un club e questo è bellissimo!
E: Facci il nome di un artista del quale compri a prescindere tutto sapendo di non sbagliare mai.
D.D.: Robert Henke.
E: Ultimamente la tua figura và sempre più avvicinandosi allo status di producer , questo grazie ai brani ed alle collaborazioni che via via si fanno sempre più fitte. Quando hai cominciato a sentire il bisogno di produrre musica ed in che modo ti sei avvicinato alla fase operativa?
D.D.: Ho iniziato ad avvicinarmi alla produzione prestissimo, già dall’89 quando ho iniziato a fare le serate come disc jockey, la mia attenzione era mirata a capire come si realizzavano i dischi che amavo.
La mia fortuna è stata di avere due mentori come Paolo e Pietro Micioni che hanno tutt’ora uno studio di produzione che si chiama Gimmick, loro mi hanno aiutato a capire quale fosse il processo della produzione e tieni conto che parliamo degli anni ’80 quindi strumentazione analogica, bobine, c’era veramente di tutto!
Le fasi sono state diverse, diciamo che la prima era quella dell’essere affascinato dalla musica, poi è seguita quella del mettere in pratica le informazioni che avevo appreso, poi ancora la consapevolezza, cominciare a collezionare degli strumenti, piano piano, iniziando con un campionatore (all’epoca ero molto appassionato di Hip Hop e mi interessava molto campionare e preparare dei beats).
Poi chiaramente le cose hanno cominciato ad affinarsi ed ho cominciato ad utilizzare i computers ed alla fine i pezzi si sono uniti da soli, ma stiamo parlando di un percorso durato 15 anni!
E: Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato una volta intrapresa questa nuova avventura?
D.D.: E’ molto semplice rispondere! La cosa più dura è senza dubbio trasporre in musica ciò che hai in mente. Tradurre il proprio pensiero in musica.
In realtà non sei mai soddisfatto quando realizzi un brano, io stesso sono convinto che non sarò mai soddisfatto di quello che faccio, perché tramutare l’energia che si ha dentro in qualcosa di esterno e tangibile, rimanendo fedeli a quelle che sono le tue emozioni, è forse la cosa più difficile di questo lavoro.
E: Queste difficoltà vengono meno soltanto provando continuamente?
D.D.: Ma anche con un semplice colpo di fortuna, perché magari da un errore nasce un’idea pazzesca, quello che devi fare sempre è essere il più sincero possibile, rendendo effettiva e leggibile quell’emozione che tu hai provato.
E: Secondo te può esistere un brano creato “a tavolino”?
D.D.: Si, però devi avere delle capacità tali che ti permettano di poterlo realizzare, ci sono artisti bravissimi a creare brani progettati in precedenza, è la loro attitudine, io non ne sarei capace, ma ho molta ammirazione verso chi riesce a programmare tutto in questa maniera.
Io credo di essere più impulsivo come carattere, quindi mi piace creare un’onda, cercare di cavalcarla e poi…vediamo cosa succede.
Però posso capire benissimo anche chi ha delle scadenze ben diverse dalle mie, magari quelli che fanno produzioni pop o per label molto grandi, lì le esigenze sono ben diverse, ed è logico che servano produttori in grado di realizzare musica anche “sotto dettatura”.
E: Nel tuo studio ci sono due Roland TB-303, una con la modifica Devil Fish, una macchina storica per tutti gli appassionati di musica elettronica cosa puoi dirci a proposito della scelta di questo strumento?
D.D.: Sono nato nel 1970, nel 1988 avevo 18 anni e quando è arrivata l’acid ho ricevuto un autentico colpo in faccia! In realtà conoscevo già il suono della 303 però non l’avevo relegato a questa macchinetta qui.
A me piaceva quel suono, ne ero molto affascinato, quando ascoltai per la prima volta “Let me go” degli Heaven 17 ero molto piccolo e pensai: “Wow! Questa è una roba che arriva da un altro pianeta!”. O ancora in “Just An Illusion” degli Immagination dove c’è una bassline 303 molto ben programmata.
Nel momento in cui invece se ne è iniziato a fare un uso “improprio” c’è stata la vera e propria presa di coscienza della generazione a cui appartengo e tutti ci siamo trovati a pensare che in fondo questa macchinetta stava cambiando il corso della musica elettronica.
In realtà ne ho acquistata una solo dopo molti anni, anche perché credo che in un certo senso bisogna essere pronti per poter utilizzare una 303. Ognuno può ricreare quel suono attraverso vari tipi di software che la possono emulare con risultati eccellenti, ma averla e suonarla significa creare una linea di continuità con quel periodo al quale sei appartenuto.
E: Puoi dirci qualcosa di specifico riguardo alla “Devil Fish”?
D.D.: Dopo esser rimasto affascinato da tutto quello che Mike Parker mi ha raccontato riguardo questa macchina infernale ho deciso di acquistare una seconda “303” e di farla diventare una Devil Fish per mano di Robin Whittle, in Australia.
Per almeno due anni ho composto una serie di demo che non ho mai pubblicato e che sono stati una vera e propria palestra nella quale acquisire padronanza con lo strumento.
La Devil Fish può veramente trasformare quello che è il classico suono della bassline in qualcos’altro di totalmente diverso,sconosciuto e misterioso.
E’ uno strumento con il quale poter realizzare dei brani quasi completi perché ha un suono talmente definito, corposo e ti permette di realizzare dei bassi veramente pericolosi!
E: Puoi dirci qual è il disco non prodotto da te nel quale ritieni ci sia il miglior utilizzo della “303” ed in quale dei tuoi dischi pensi di averla utilizzata al meglio?
D.D.: Cominciamo dal mio così riduciamo il campo d’indagine. (Dopo molta esitazione) Ok, ci sono: “Real Love” realizzato insieme a Giorgio Gigli, perché sono riuscito ad ottenere dalla macchina esattamente quello che volevamo, ovvero una bassline che allo stesso tempo fosse una cosa ritmica e che stimolasse lo spettro con frequenze tutte diverse una dall’altra.
Avevo in mente di realizzare un brano che impegnasse il minor numero di strumenti possibile, e grazie alla Devil Fish siamo riusciti nell’intento!
Per quanto riguarda la bassline utilizzata da altri, torno a ripetere “Let me go” degli Heaven 17, poi citerei sicuramente “151” di Armando o ancora “Acid Tracks” di Phuture, ma quello che amo veramente è l’uso alternativo dello strumento, magari utilizzato in un brano che non sia propriamente house, in tal proposito potrei citarti i Massive Attack in “Protection” o ancora il remix di Kruder & Dorfmeister per “1st of the month” dei Bone Thugs ‘n Harmony, brano contenuto nelle famose KD sessions.
E: Credi il tuo sound abbia raggiunto una maturità tale che possa farti affermare che ti rappresenti completamente?
D.D.: Non riuscirei mai ad essere così lucido verso la mia musica, né a poter affermare una cosa del genere. Sai, delle volte mi trovo ad iniziare diversi progetti che poi rimangono incompiuti causa la perdita di entusiasmo, e questo capita molto spesso, se andiamo a cercare nel mio hard disk troveremmo decine di pezzi iniziati e mai conclusi.
Direi che tutto dipende dallo stato d’animo nel quale mi trovo, a volte sono pieno d’entusiasmo e riesco a chiudere un brano in poco tempo mentre altre, molte, questo rimane soltanto una scintilla che non ha mai visto la fine.
E: Riusciresti a contemplare l’idea di realizzare le tue produzioni utilizzando esclusivamente software?
D.D.: Come sfida, probabilmente, nel senso che ora sono talmente abituato a realizzare tutte le mie produzioni con strumenti analogici, ma allo stesso tempo non sono un fondamentalista e quindi non tendo ad escludere totalmente la strumentazione digitale.
Per cui ogni tanto mi ritrovo ad aprire dei software e provare ad immergermi in quel tipo di sonorità. Mi interessano ed affascinano ancora, quello che ci tengo a precisare è che accetto tutti i tipi di tecniche, purchè ci sia criterio in quel che si fa.
E: In base alla tua esperienza quale pensi debba/possa essere il periodo di gestazione minimo per fare di un semplice “smanettone” un vero produttore?
D.D.: Beh questo credo sia totalmente soggettivo, dipende da quanto tempo impieghi a far materializzare quello che hai in mente.
Io sono diffidente verso le persone che producono a raffica, creando un percorso senza soste, questa a mio avviso è una mancanza di autocontrollo, credo un produttore debba avere un minimo di senso del limite e di autocritica oltre che la giusta coerenza e l’onestà verso il proprio pubblico.
Questo ti porta ad essere in un certo senso maturo e quindi ti permette di compiere il salto di qualità necessario a farti considerare un vero produttore.
E: A nostro avviso questo termine è ormai abusato nel 90% dei casi, e solo raramente ci si può trovar a parlare con un produttore che può vantare uno studio come il tuo.
Questo ovviamente può tirarci contro molte persone, ma la nostra idea è che dovremmo in qualche modo riavvicinarci a quello status elitario che una decina di anni fa permetteva di farci ascoltare molta musica di qualità. Qual è il tuo pensiero riguardo alla massificazione alla quale stiamo assistendo?
D.D.: Ovviamente l’enorme mole di musica riversata su web ogni giorno ha creato una sorta di dispersione non controllata, e questo può essere un bene od un male, nel senso che ora, più che mai, c’è bisogno di selezione. Nei primi anni ’90 c’erano artisti come i Future Sound Of London ad esempio che avevano uno studio e delle strumentazioni fuori dal comune ed oltretutto erano appassionatissimi al loro lavoro, e se senti un loro brano puoi renderti conto che dentro c’è molto di più.
C’è tutto il peso dell’esperienza, della passione e delle capacità tecniche acquisite in anni di lavoro. Con questo non voglio dire che la tecnica non sia replicabile con un computer, ma certamente questa nuova “accessibilità” ha fatto aumentare di molto la quantità di musica prodotta e quindi bisogna impegnarsi per trovare qualcosa di veramente ricco.
Ovviamente la tecnologia và incontro sia al produttore che al consumatore, infatti oggi abbiamo strumenti sempre più raffinati per la ricerca della musica, mentre un tempo per trovare le cose migliori bisognava prendere un aereo e volare a Londra o, per chi poteva permetterselo, negli Stati Uniti. In fin dei conti credo continui ad esserci un equilibrio tra le parti.
E: Entrando nel vortice della produzione si può correre il rischio di isolarsi troppo dal mondo musicale arrivando a snobbare tutto ciò che non è stato concepito e creato da e per se stessi?
Ti faccio questa domanda perché sempre più spesso mi capita di intervistare artisti o leggere interviste nelle quali dichiarano fieri di non appartenere al mondo della musica elettronica e in molti casi di non conoscere artisti o dischi che magari sono seminali per la storia che stiamo raccontando.
D.D.: Anche in questo caso credo la cosa possa variare da artista ad artista, conosco persone assolutamente concentrate su sé stesse che conoscono praticamente soltanto la loro musica, però lavorano talmente bene che poi è un piacere sentire le loro creazioni.
Al contrario conosco altri artisti che immagazzinano quante più informazioni possibile, appassionandosi a fondo, i cosiddetti “tuttologi”, una categoria tutta a sè!
E: Quali sono i progetti a cui stai lavorando attualmente? C’è chi comincia a gridare all’album, cosa dobbiamo aspettarci?
D.D.: Non farò mai un album! Non ne sono capace! (risate) No, ok, in realtà stavo cominciando a pensare ad un album in un momento in cui credevo ancora particolarmente nell’industria della musica, ma subito dopo ci fu il tracollo che ha portato ad una riduzione drastica del consumo e della gestione delle cose. In quel momento sono rientrato in Italia ed ho dovuto cominciare a riconsiderare tutto, l’idea dell’album non era più viva e concreta come qualche tempo prima.
Se oggi dovessi immaginare un album, questo dovrebbe essere un prodotto senza alcun compromesso, totalmente libero. Soltanto ciò che è nella mia mente e forse, paradossalmente, questo potrebbe essere un momento adatto ad un prodotto del genere, perché chi compra vinile oggi è una persona che lo ama profondamente ed io produrrei il mio album solo ed unicamente in questo formato.
Da poco tempo sono stato contattato per la realizzazione di musica ambient da pubblicare su cassetta, e questa per me è stata una proposta molto stimolante, pensare ad un numero limitatissimo di pezzi, con art work fatti a mano è qualcosa che ho sempre voluto.
Al momento il mio interesse verso l’album è proteso senz’altro verso musica d’ascolto, non meno che a brani dance o quant’altro.
E: Hai mai pensato alla realizzazione di colonne sonore?
D.D.: Si, è una cosa che mi interessa moltissimo, aspetto soltanto di essere “illuminato” dall’idea di qualcuno!
E: Altri progetti?
D.D.: Beh sicuramente posso parlarti della mia creatura preferita al momento: Aquaplano, progetto che realizzo insieme al mio amico Manuel Fogliata, in arte Nuel.
Lui è una di quelle persone con le quali mi capisco al volo sia sotto il punto di vista tecnico che personale. Aquaplano vuole essere un progetto musicale autentico, vero, un prodotto che rispetti i tempi e si concentri sull’unica cosa importante, la musica.
Dopo i primi 2 dischi presto ne faremo uscire un terzo, ma quel che è più importante è che Aquaplano rappresenta la storia di un amicizia, è qualcosa di puro e sincero.
E: Di cosa si compone la tua collezione di dischi? Quanta musica nella tua vita e quanta altra oltre la techno?
D.D.: La mia collezione comprende dischi di tutti i tipi ognuno rappresenta uno step importante della mia vita, si và dal rock al reggae o ancora rap ed hip hop, dub, drum and bass, musica classica, folcloristica, sonorizzazioni, musica italiana…
E: Quali sono gli artisti italiani che apprezzi maggiormente?
D.D.: Paolo Conte, Franco Battiato, PFM e De Andrè su tutti, poi Gino Paoli, Mina, Rino Gaetano ed altri.
E: Sei stato influenzato in qualche maniera dalla disco music?
D.D.: Tantissimo, ne ero molto affascinato, “The Chase” di Moroder, per esempio è un pezzo che da piccolo mi ha “rotto in due”! E’ musica che anticipava molte delle componenti che ora sono parte fondante della mia musica, dalle bassline alla cassa alle melodie, non è mai successo, ma è un brano che potrei anche suonare in uno dei miei set.
E: Ora una domanda che è un po’ il rito di chiusura, qual è il disco che hai ascoltato più volte nella tua vita? Voglio un solo nome, quello che semplicemente è finito più volte nel tuo lettore e perché.
D.D.: Tommy degli Who!
E: Perché?
D.D.: E’ figlio di un periodo di forte psichedelia, ha dei brani che viaggiano completamente nel tempo e nello spazio, ha delle tematiche molto molto acide, degli arrangiamenti e delle trovate ritmiche sublimi, un fortissimo potere descrittivo.
Per quanto mi riguarda è il simbolo della generazione dalla quale proviene, credo che la techno più psichedelica di adesso sia una conseguenza di quella musica, sono convinto che assistere ad una performance dal vivo degli Who provocava lo stesso effetto di un Jeff mills di adesso.
E’ un disco che riascolto sempre.
liquid
fonte:www.electronique.it
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